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Curiosi di sapere di cosa tratti questo libro?
Eccovi qualche estratto dal Prologo, uscito tempo addietro come episodio pilota. Oggi vi presento Kira.
Buona lettura!
❂❂❂
Kira odiava la nebbia.
E quella mattina a Pittsburgh ce n’era fin troppa.
Rabbrividì, stringendosi addosso l’impermeabile, più per la sensazione
che provava che per il freddo.
La nebbia la faceva sentire persa: era come essere avvolta nel magico
mondo di Alice in Wonderland, dove,
all’improvviso, poteva apparire un essere sconosciuto... ma anziché proporre
magie, le avrebbe regalato solo incubi.
“La odio!”, si disse,
mentre si apprestava a raggiungere l’edificio dove l’aspettava Max, il suo
capo.
Si guardò attorno, scrutando pensosa il bureau della city, il comando di
polizia situato in un vecchio palazzo vittoriano dello Strip District, la cui
facciata era scurita dallo smog e dalle intemperie, chiedendosi per l’ennesima
volta perché fosse stata convocata lì.
Di solito, per lavoro non si confrontava mai con le forze dell’ordine,
né collaborava con loro, e questo imprevisto incontro la incuriosiva, ma la
preoccupava allo stesso tempo.
Apparteneva a una squadra operativa “fantasma”, alle dipendenze di un’organizzazione
privata, e svolgeva ruoli di recupero
dati oppure di ripulitore,
un termine molto blando per definire il suo compito di “pulizia”, quando
avvenivano operazioni cruente, o di cui i governi dello stato in cui lavoravano
non dovevano essere informati.
Producendo uno sbuffo di vapore, varcò la porta d’ingresso. La sala
d’aspetto era come un formicaio nell’ora di punta: agenti che entravano e
uscivano, donne poco vestite che riempivano di insulti il piantone di turno
chiedendo di essere rilasciate o di poter telefonare a casa; giovani avvocati
d’ufficio dall’aria distrutta che vagavano da una scrivania all’altra, trascinando
voluminosi dossier.
“Peggio del
mercato rionale quando si riuniscono le massaie”. Sorrise,
dirigendosi al banco dell’agente di guardia per chiedere indicazioni.
«Ehi! Cerca di metterti in coda, baby!», l’apostrofò bruscamente una
rossa provocante con il mascara e la matita colati sul viso, cercando di
allontanarla con uno spintone.
Kira evitò di essere toccata e le lanciò un’occhiata gelida, facendole
bloccare il braccio a mezz’aria, sorpresa. Poi, come nulla fosse accaduto, la
schivò e chiese dove trovare la detective Cobain. L’uomo la fissò stupito, ma
le indicò la linea rossa dipinta sul pavimento che l’avrebbe portata dalla
persona che cercava. Con un cenno della testa, lei si incamminò, facendo
sollevare numerosi sguardi in sua direzione.
Sapeva di essere appariscente, con i suoi lunghi capelli biondi, di un
colore quasi lunare, i profondi occhi blu e gli zigomi scolpiti. La silhouette
perfetta era modellata in un jeans fasciante e un dolcevita nero, mentre il suo
incedere ricordava una letale pantera.
Varcò la porta e fece scivolare lo sguardo sui presenti. C’erano tre
uomini e una donna, impegnati in una conversazione serrata.
La detective Cobain, seduta a un lato della scrivania, faceva domande incalzanti
a cui Max rispondeva con garbo e meticolosità. Si interruppe un attimo, quando
percepì la sua presenza e, voltando appena la testa, la presentò:
«Mia nipote Kira».
«Nome insolito», mormorò la detective, valutandola.
«Orientale», replicò la ragazza con una smorfia, per sottolineare che
aveva sentito quella battuta tante volte.
«Uhm. Signor Kaminski, come le dicevo, vorremmo avere da lei alcune
informazioni sul professor Klaus Krainager, defunto titolare della Kraientech.
Sappiamo che siete amici di vecchia data...».
«Klaus e io ci conosciamo fin dal liceo e abbiamo fatto alcuni anni di
college presso lo stesso campus, anche se poi abbiamo preso specializzazioni
diverse. Già a quei tempi era un autentico genio».
«Da quanto non lo vedeva?».
«Un paio di mesi circa. Sono stato via per lavoro e lui era molto preso
dai suoi studi. Non so se ne siete al corrente, ma è stato candidato al premio
Nobel per le sue ricerche sul genoma e le variazioni cromosomiche».
«Sì», affermò la donna, sfogliando i vari fascicoli sparsi sulla
scrivania. «Aveva nemici, che lei sappia, o motivi per cui potesse pensare di
porre fine alla sua vita?».
«Klaus? No. Era un uomo che amava la vita, anche se negli ultimi due
anni era stato provato da un grande dolore», rispose, scuotendo la testa con
vigore.
«Allude a sua figlia?».
«Già».
Max sospirò, passandosi una mano sulla fronte.
«La morte di Agatha l’aveva completamente distrutto. Sa, non è stato
facile per lui allevare una bambina da solo, tutto preso com’era dai suoi
studi, ma aveva superato il problema alla grande».
«Non aveva una moglie, una compagna? La madre della piccola, per
esempio?».
«No, Agatha era nata da una donazione di ovuli, una mamma surrogato.
Klaus desiderava un bambino, ma non aveva tempo per le relazioni umane, per
così dire. Si era rivolto a un’agenzia specializzata e, dopo qualche tempo, mi
aveva chiamato tutto entusiasta presentandomi la bambina».
«Cosa è successo alla piccola?», chiese uno degli uomini, prendendo
annotazioni su un tablet.
«Morbo di Batten». Max sospirò. «Si è manifestato verso il quinto anno
di vita. Quando l’ha scoperto, Klaus ha cominciato a lavorare instancabilmente
per due anni, cercando di salvarla, ma senza successo. Davvero un colpo, per
lui che aveva trovato la soluzione per aiutare tanta gente, ma non la persona
che più amava al mondo».
Gli agenti si scambiarono una breve occhiata, e poi, da una busta gialla,
la detective prese un involucro trasparente, contenente un foglio staccato da
un blocco di appunti, su cui era vergato qualcosa con una grafia nervosa.
Max se lo vide proporre lungo il tavolo e chiese:
«Cos’è?».
«L’hanno trovato sul tavolo accanto al corpo. Sulla busta c’era il suo
nome, professore».
Lui fissò per qualche attimo la Cobain e poi lo prese e lo studiò con
attenzione.
Sulla busta che accompagnava il foglio si leggeva “Per Max Kaminski”. Sul foglio c’era un’unica parola: Agatha.
«Che significa?», chiese Max, riportando lo sguardo sulla donna.
«Speravamo ce lo dicesse lei».
«Non capisco. Se Klaus avesse voluto dirmi qualcosa, non mi avrebbe lasciato
solo il nome di sua figlia», commentò lui, irritato. «Non c’era altro?».
«Forse pensava che avrebbe capito...», azzardò uno degli uomini.
«Vuole insinuare che questo spiegherebbe un ultimo gesto disperato? Un
uomo distrutto che, dopo due anni dalla morte della figlia, decide di farla
finita? Mi perdoni, ma non ci credo!».
«Non tireremo conclusioni affrettate, professore. Le prometto che
controlleremo ogni indizio, ogni pista, ogni dichiarazione».
«Bene. Attendo sue notizie allora, detective».
Con un gesto secco, Max si alzò e, dopo aver stretto la mano alla donna,
seguito da Kira, si affrettò a lasciare la sala e l’edificio.
La ragazza camminò al suo fianco senza fare domande, aspettando che
fosse lui a iniziare qualsiasi discorso, compreso il motivo per cui l’aveva
convocata.
Sul marciapiede, Max tirò su il bavero del cappotto e sospirò. Attese
qualche secondo e poi si incamminò verso la sua auto parcheggiata sul lato
opposto della strada.
Kira gli prese le chiavi dalle mani, si sedette al posto di guida, aspettò
che lui si accomodasse in quello del passeggero e, dopo un’occhiata allo
specchietto retrovisore, avviò il motore e si inserì nel traffico ancora
abbastanza scorrevole.
«Ho una missione per te», dichiarò Max, alla fine.
«Cosa vuoi che faccia?», chiese lei, senza neanche guardarlo.
«Faccio qualche telefonata e poi, se ho le risposte che cerco, dovrai
partire».
«Nessun problema».
«Kira, questa volta è una cosa non ufficiale», soggiunse l’uomo,
voltandosi verso di lei. «Riferirai solo a me».
La giovane donna gli lanciò un’occhiata seria, prima di riportare lo
sguardo sulla strada e fermarsi a un semaforo.
«Mi darai qualche dettaglio?».
«Credo che tu abbia capito cos’è successo. Qualcosa non torna, Kira. Né
la morte di Klaus, né le circostanze, né quel biglietto. Ho bisogno di sapere
la verità. Credo che quella scritta sia una richiesta di aiuto, ma non so
ancora per chi o per cosa». Sospirò. «Lo farai?».
Per la prima volta da quando lo conosceva, Kira notò una piccola
incrinatura nella sua voce che la sorprese: Max non era tipo da mostrare emozioni.
Forse era il dolore della perdita dell’amico, o forse qualcosa che lei
al momento non capiva, ma decise che non le importava.
«Aspetto il tuo via», asserì, tranquilla, inserendo la marcia e
ripartendo in direzione della periferia.
A domani, dove incontrerete... Damien! ♥
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