Da Time Vampires - Codice Agatha
Damien sospirò, guardandosi intorno.
Aveva un bisogno disperato di energia per sopravvivere, e tutte quelle
persone che si muovevano in modo vorticoso intorno a lui non facevano altro che
portargliene via.
Osservava da secoli gli esseri umani e ancora non riusciva a capire
perché fossero sempre di corsa. Correvano per nutrirsi, per divertirsi, per
combattere. Persino per amare.
E non avevano imparato nulla da tutta la loro storia.
Un movimento fluttuante provocato da un palloncino nell’aria, tenuto con
un sottile filo da una manina paffuta, attrasse il suo sguardo. Era di un
arancione brillante, caldo, con la membrana sottile che disegnava un ovale
perfetto e che, soffiato dal vento, effettuava un dondolio quasi ipnotico. Damien
si sentiva leggero, proprio come quel corpo fluttuante, privo di peso. Il
palloncino sarebbe volato via libero se solo non ci fosse stata quella manina a
trattenerlo.
Anche lui aveva la sensazione che, se non ci fosse stata la panchina a
sorreggere il suo peso, si sarebbe dissolto.
Con uno sforzo enorme, riportò lo sguardo verso il basso, fissandosi le
mani, e inarcò un sopracciglio: stavano scomparendo. Sospirò. Doveva decidersi
ad andare in cerca di energia, prima di essere solo un ricordo.
Ricordo?
Ci rifletté e arrivò alla conclusione che non poteva essere neanche un
ricordo, visto che nessuno lo vedeva: non era altro che uno spettro.
“Se la gente
sapesse cosa sono, si metterebbe a ridere”.
Stirò le labbra in un sorriso amaro, ma non accennò ad alzarsi. Ce
l’avrebbe fatta? O invece la stanchezza che sentiva dentro lo avrebbe convinto
a rimanere su quella panchina, in attesa di diventare una particella di quel
vecchio, consumato, inutile universo?
«Mamma, possiamo prendere un palloncino?».
Quel tono dolce e titubante gli fece riaprire gli occhi.
Una bambina minuta, con una cascata di riccioli neri che le incorniciava
il visino delicato e gli occhi profondi, stava guardando nella sua direzione
con aria sognante.
«Ma certo, tesoro! Di che colore ti piace?».
«Non lo so, mi piacciono tutti».
Damien osservò gli oggetti svolazzanti e pensò: “Rosso”.
«Rosso!», esclamò la bambina. «Sì, lo
voglio rosso».
L’uomo sorrise: aveva sempre avuto un profondo feeling mentale con i
bambini. Osservò ancora per un po’ quei riccioli scuri e sentì il vuoto
aumentare dentro di sé. Conosceva la storia della piccola e sapeva che a breve,
la sua vita sarebbe terminata. Aveva assorbito energia dalla sua mamma, e
insieme aveva ricevuto i suoi dolorosi pensieri. E ogni volta si rammaricava
che giovani fiori così delicati avessero vita breve, ma non poteva porvi
rimedio. L’unica cosa che poteva fare era assorbire energia da persone che non
meritavano di vivere, ma era solo una fugace illusione.
Le regole erano poche, ma molto ferree: poteva assorbire l’energia
vitale dagli umani, ma senza causarne la morte. Non doveva interferire con le
loro leggi, ma soprattutto non doveva rivelare la sua natura.
«È bellissimo!», esclamò la bambina con un sorriso estasiato, stringendo
il filo in una mano e guardando il suo palloncino svolazzare, mosso dal vento.
«Vero, signore?».
«Sì, davvero», annuì lui.
Si alzò con cautela e le passò una mano sui capelli in un’ultima
carezza.
Il suo tempo stava finendo come quello della piccola e l’istinto di conservazione
lo aveva scosso da quel torpore.
Si concentrò per un attimo, fissando i contorni delle persone intorno a
lui. Vedeva intorno a loro una vaga aura, di colore diverso a seconda della
loro natura di vittima o predatore, che indicava a Damien e ai suoi simili
anche il livello di energia che avevano.
Già, perché erano gli esseri umani e la loro energia il sostentamento di
quelle presenze antichissime, appartenenti alla stirpe di Kairos che, come
l’essenza della parola greca indicava, dominavano il “tempo di Dio” e
occupavano un “tempo di mezzo”, una dimensione che si incrociava con quella
dell’uomo, ma senza davvero farne parte.
Venivano accomunati alla figura mitologica del vampiro, mostro che
succhia sangue agli umani per prolungare la sua esistenza, pur essendo già morto,
ma in realtà i Kairosyani si nutrivano della parte più preziosa dell’essere umano,
ossia il suo tempo.
E tanti di loro, pur essendo stati uomini, ne avevano perso il ricordo quando
erano stati trasformati in strumenti per la vendetta divina.
Un brillio di una sfumatura d’azzurro catturò la sua attenzione e,
concentrandosi sull’obiettivo, con un leggero movimento del capo spostò il
corpo, o quello che ne rimaneva, verso la vittima.
Arrivò alle spalle della giovane donna che sedeva all’ombra del
monumento. Era assorta a guardare il campanile della piazza, mentre dava un
morso svogliato all’hot-dog che aveva comprato al chiosco. Damien le appoggiò i
palmi delle mani sulle spalle e, come una flebile scarica elettrica, una calda
energia si trasferì nel suo corpo, che cominciò a riprendere consistenza.
Impiegò quello che per lui era un battito di ciglia, ma l’orologio che
indossava, sul cui quadrante lampeggiavano antiche rune, indicava che aveva
sottratto alla sua vittima ben tre ore.
La lasciò andare sentendosi ritemprato, ma un fiotto quasi doloroso gli invase
la mente. Una stretta alla bocca dello stomaco, un disagio che si tramutò in
rabbia cieca quando le immagini gli si riversarono nella mente: un
licenziamento, dolore, delusione, una famiglia da cui tornare a mani vuote.
Lisa. Quello era il nome della ragazza che adesso fissava imbambolata il
suo freddo panino, mentre lanciava un’occhiata sorpresa intorno a sé.
Era sempre così, quando si risvegliavano dall’incontro con lui, incerti
sull’accaduto, un brivido di freddo lungo la schiena e una sensazione di pressione
sulle spalle.
Lisa si strofinò le braccia cercando di riscaldarsi e lasciando cadere
nel cestino dei rifiuti quel che restava del suo pranzo. Fissò l’orologio e
gettò un’esclamazione soffocata: il tempo era passato in fretta!
Damien, pur rimanendo sulla soglia della sua dimensione invisibile,
provava le sue stesse sensazioni e le lasciò scorrere. Era un disagio
conosciuto, ma sapeva che sarebbe passato in fretta. Il tempo di riuscire a
raccogliere quei ricordi, sigillarli in un angolo della sua mente ed
etichettarli come “effetto collaterale” prima di riprendere il suo girovagare.
Rassegnata, Lisa si avviò verso casa, meditando sulla situazione in cui
si trovava e cercando un modo per poterlo comunicare ai suoi cari.
“Ce la farai”, pensò tra sé
Damien, seguendola con lo sguardo. “Sei
una donna”.
Aveva una profonda ammirazione per il genere femminile, da quando,
giovane del tardo Medioevo, aveva scoperto la passione, la grinta e l’ardore
che le donne mettevano in ogni impresa, non rimanendo a trastullarsi nella loro
tetra situazione, nonostante vivessero un’esistenza misera e inferiore
all’uomo.
La loro linfa vitale era cristallina, quando gli arrivava dentro, come
una cascata rigenerante per il suo corpo.
Si diresse fischiettando verso il viale alberato e, con un leggero cenno
della mano, fece inciampare un uomo in prossimità di Lisa, così che lui la
urtasse.
Tra scuse varie, risate e imbarazzo, avrebbero compreso che si piacevano
e lui avrebbe spiegato che la fretta e la distrazione che l’avevano fatto
inciampare erano da imputare a un lavoro urgente da finire perché la segretaria
si era licenziata.
“Se non mi
fossi fermata qui tutto questo tempo!”, avrebbe pensato Lisa, sorridendo, mentre
accompagnava l’uomo in direzione del vicino palazzo.
Eh, i misteri della vita!
«Torniamo alla base», sorrise Damien, mentre a passo svelto si dirigeva
al campanile.
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